Class Culture and Suburban Anxieties in the Victorian Era Routledge Studies in Nineteenth Century Literature 1st Edition Lara Baker Whelan - Download the ebook today and experience the full content
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Class, Culture and
Suburban Anxieties in the
Victorian Era
Routledge Studies in
Nineteenth-Century Literature
1. Nineteenth-Century Narratives
of Contagion
‘Our Feverish Contact’
Allan Conrad Christensen
All rights reserved. No part of this book may be reprinted or reproduced or utilised
in any form or by any electronic, mechanical, or other means, now known or hereaf-
ter invented, including photocopying and recording, or in any information storage or
retrieval system, without permission in writing from the publishers.
List of Figures ix
Acknowledgments xi
Appendix 159
Notes 161
Bibliography 167
Index 175
Figures
This work could not have been fi nished, or even begun, without the help
of the following people: Dr. Barbara Gates, whose support, constructive
criticism and timely suggestions helped me take this work further than I
ever foresaw; Dr. Michael Cotsell, whose ability to suggest entirely new
vistas of significance with a single comment gave me the insight I needed to
pull all the various threads into a coherent whole; Dr. Carl Dawson, whose
unwillingness to be easily convinced encouraged me to always think of the
audience beyond myself; Dr. Julie Early, whose work and collegial support
inspired me to keep on, knowing I was not the only one who found the
suburbs a fascinating subject; and all those friends and colleagues who so
generously invested time and effort in critiquing the many incarnations of
this work. Also to Dr. John Spiers, whose positive response to portions of
this work helped sustain its growth. Thanks also to the University of Dela-
ware Memorial Library staff, Berry College and the Interlibrary Loan staff,
without whom this project would not have been possible.
Finally, parts of the Introduction and Chapter 5 were fi rst published
as “Between Worlds: Class Identity and Suburban Ghost Stories, 1850–
1880” in Mosaic: A Journal for the Interdisciplinary Study of Literature
35.1 (March 2002): 133–148 and are reprinted with permission; parts of
Chapter 8 were fi rst published as “The Clash of Space and Culture: Giss-
ing and the Rise of the ‘New’ Suburban” in Gissing and the City: Cultural
Crisis and the Making of Books in Late Victorian England, ed. John Spiers
(Palgrave Macmillan, 2006) and are reprinted with permission of Palgrave
Macmillan.
1 Introduction
“Scenes of Peace and Quietude,” or
Victorian Fantasies of Suburban Utopia
Essa è il cieco mondo, il loco d'ogni luce muto, la cui eterna caligine
è rotta solo dai sanguigni lampeggiamenti di quei nembi e vortici di
fiamme, dal corruscare delle brage ammontate, dei metalli colati.
Non mancò del resto chi disse il fuoco infernale aver l'ardore e non
la luce, esser nere le fiamme che mai non si spengono.
Il regno della morta gente è vasto e profondo, come si conviene
all'infinito popolo che vi si accoglie. In un antico poema
anglosassone si dice che Cristo ordinò a Satana di misurarlo, e
Satana trovò che dal fondo alla porta correvano 100,000 miglia.
Giova per altro avvertire che il gesuita Cornelio a Lapide (1566-
1637), autore di dieci volumi di commento sopra la Sacra Scrittura,
afferma non avere l'inferno più di dugento miglia italiane di
larghezza. Un buon teologo tedesco andò più in là e calcolò che una
capacità di un miglio per ogni verso basta a centomila milioni
d'anime dannate, le quali non hanno già a stare al largo e a loro
agio, ma le une sulle altre, pigiate, come le acciughe nel barile, o gli
acini dell'uva nel tino.
Dante ci descrive un inferno geometricamente costruito, diviso in
cerchi, che facendosi sempre più angusti, vanno digradando verso il
centro della terra. Tale struttura si ritrova in alcuni degli imitatori del
divino poeta, ma non in quelli che si possono in qualche modo
chiamare precursori suoi, negli autori delle Visioni. Qui l'inferno
descritto rassomiglia a una regione terrestre, salvo che è più orribile
assai d'ogni più orribile luogo che conoscano gli uomini, e non vede
mai lume di cielo. Vi si trovano montagne dirupate ed ignude, valli
asserragliate e ronchiose, precipizii spalancati, foreste d'alberi strani,
laghi color di bitume, paludi putride e tetre. Lo traversano per lungo
e per largo fiumi pigri o impetuosi, alcuni dei quali scaturiti dalle
viscere dell'Averno antico, l'Acheronte, il Flegetonte, il Lete, il Cocito,
lo Stige, che anche Dante descrive, o ricorda.
Non mancavano nel doloroso regno le città e le castella. Dante
dipinge la città di Dite, vallata d'alte fosse, con le torri eternamente
affocate, con le mura di ferro. Spesso l'inferno tutto intero è
considerato come una gran città, che prende il nome di Babilonia
infernale, e si oppone alla Gerusalemme celeste, come Satana si
oppone a Dio. Immaginate, dice san Bonaventura, una città vasta ed
orribile, profondamente tenebrosa, accesa di oscurissime e
terribilissime fiamme, piena di clamori spaventevoli e di urla
disperate; tale è l'inferno. Un poeta francescano del secolo XIII,
Giacomino da Verona, descrisse in due suoi poemi assai rozzi, ma
accesi di fede, le due città contrarie, l'una a riscontro dell'altra. La
Gerusalemme celeste è cinta d'alte mura, fondata di pietre preziose,
munita di tre porte più lucenti che stelle, adorna di merli di cristallo.
Le sue vie e le sue piazze sono lastricate d'oro e d'argento; i palazzi
risplendono nello sfoggio dei marmi, dei lapislazzuli, dei metalli
preziosi. Acque cristaline corrono per ogni banda e dànno alimento
ad alberi meravigliosi, a fiori soavissimi: l'aria pervasa da un lume
divino, è tutta un olezzo, e vibra di armonie sovrumane. Ben diversa
da quella è la Babilonia infernale.
L'inferno c'è per comun punizione dei dannati e dei diavoli, dei
tormentati e dei tormentatori. Satana ha in se più qualità e più
officii, che pajono, a primo aspetto, non potersi conciliare fra loro.
Cagion prima del male nel mondo, suscitatore instancabile di
peccato, e seduttore perpetuo di anime, egli è nel tempo stesso il
gran giustiziere, egli è colui per la cui opera il male è represso e il
peccato si espia.
Non è così picciolo atto, nè così tenue pensiero, nella vita e nella
mente degli uomini, di cui i demonii non serbino memoria, quando
siavi in quelli alcuna parte, alcun fermento di colpa. Sant'Agostino
vide una volta un diavolo che recava sulle spalle un grandissimo
libro, dove erano notati per ordine tutti i peccati degli uomini. Più
spesso c'era per ogni singolo peccatore un particolar volume,
ponderoso e tetro, che i diavoli portavano ostentatamente in
giudizio, opponendolo al piccioletto ed aureo in cui l'angelo custode
aveva amorosamente descritte le azioni buone e meritorie, e
scaraventandolo talora, con iscalpore e con ira, in uno dei piatti della
bilancia divina. In più chiese del medio evo, come, per esempio nel
duomo di Halberstadt, si vede dipinto il diavolo che scrive i nomi di
coloro i quali dormono nella casa di Dio, o chiacchierano, o in altro
modo non serbano il contegno dovuto. Nella vita di sant'Aicadro si
legge che avendo un pover uomo osato di tagliarsi i capelli in giorno
di domenica, fu veduto, appiattato in un angolo della casa, il diavolo,
che frettolosamente scriveva il peccato sopra un foglietto di
pergamena.
Di regola il peccatore indegno di misericordia è punito in inferno; ma
talvolta Satana, coltolo sul fatto, anticipa la vendetta divina e lo
castiga mentre è ancor vivo. Gli uccisori di san Regolo, vescovo,
furono strozzati, l'assassino di san Godegrando fu portato via dal
diavolo; certa donna di mala vita, che voleva trascinare al peccato
sant'Elia Speleota, fu da lui conciata pel dì delle feste. Se non mente
lo storico Liutprando, il pessimo pontefice Giovanni XII fu
ammazzato a furia di legnate dal diavolo, che lo colse in letto, fra le
braccia di una concubina; e sì che il pontefice usava, mentr'era vivo
e sano, di bere alla salute di colui che doveva fargli fare così misera
fine. Fra Filippo da Siena racconta la terribile storia di certa donna
non meno vana che leggiadra, usa di spendere l'ore in lisciarsi ed
ornarsi, la quale fu una bella volta lisciata dal diavolo, e sfigurata in
modo che di vergogna e di paura se ne morì. Ciò avvenne in Siena,
l'anno di grazia 1322. Ai 27 di maggio del 1562, alle sette ore di
sera, nella città di Anversa, il diavolo strangolò una fanciulla, che
invitata a nozze, aveva osato comperare certa tela a nove talleri il
braccio, per farsene uno di quei collari crespi a ventaglio, come
usavano allora. Spesso il diavolo picchia, strozza, o porta via chi si
mostra irriverente alle reliquie, o deride le sacre cerimonie; entra in
corpo a chi assiste distrattamente alla messa; rimprovera ad alta
voce, con gran confusione dei colpevoli, peccati secreti. Spesso il
furore diabolico non si cheta se non dopo essersi esercitato anche
sul cadavere del peccatore, e molte orribili storie si raccontano di
corpi che furono strappati a furia fuor delle chiese, o bruciati negli
avelli, o lacerati a brani.
Santa Teresa chiese una volta a Dio di poter fare, per propria
edificazione, un piccolo saggio delle pene dell'inferno. Le fu
conceduta la grazia, e dopo sei anni il ricordo dello strazio sofferto la
gelava ancora di terrore. Sono molte le storie in cui si narra di
dannati usciti per breve ora dall'inferno, a solo fine di dare a' vivi
alcun segno delle inenarrabili torture a cui vanno soggetti. Jacopo
Passavanti racconta quella di Ser Lo, maestro di filosofia in Parigi, e
di certo suo scolare, “arguto e sottile in disputare, ma superbo e
vizioso di sua vita,„ il quale essendo morto, apparve dopo alquanti
giorni al maestro, e gli disse d'essere dannato, e per fargli conoscere
in qualche modo l'atrocità dei tormenti che pativa, scosse un dito
sovra la palma della mano di lui, facendovi cadere una piccola goccia
di sudore, che “forò la mano dall'uno lato all'altro con molto dolore e
pena, come fosse stata una saetta focosa et aguta.„
Le pene infernali sono, al dir dei teologi, non solo continue nel
tempo, ma continue ancora nello spazio, in questo senso, che non è
nel dannato neppur una minima particella che non soffra intollerabile
strazio, e sempre egualmente intenso. Strumento principale di pena
è il fuoco. Origene, Lattanzio, san Giovanni Damasceno, credettero
che il fuoco infernale fosse un fuoco puramente ideale e metaforico;
ma la grande maggioranza dei Padri tenne contraria opinione, e
sant'Agostino disse che se i mari tutti della terra confluissero in
inferno non potrebbero temperarvi l'ardore delle orribili fiamme che
perpetuamente vi divampano. Oltre il fuoco v'è il ghiaccio, vi sono i
venti impetuosi e le piogge dirotte, vi sono animali orribili, e mille
qualità di tormenti, che i diavoli inventano e adoprano. San
Tommaso prova che i diavoli hanno il diritto e il dovere di tormentare
i dannati; che essi fanno quanto possono per ispaventarli e torturarli,
e che per giunta li deridono e li scherniscono. La pena maggiore ad
ogni modo viene ai dannati dall'esser privi in eterno della beatifica
visione di Dio, e dall'aver conoscenza della letizia dei santi. Su
quest'ultimo punto per altro gli scrittori non troppo si accordano,
essendovene alcuni i quali affermano che i santi vedono le pene dei
reprobi, ma questi non vedono il gaudio di quelli. San Gregorio
Magno assicura che le pene dei dannati sono agli eletti gradito
spettacolo, e san Bernardo di Chiaravalle si scalmana a dimostrare
che i beati godono dello spettacolo che i tormenti dei dannati offrono
alla lor vista, e ne godono per quattro ragioni propriamente: la
prima, perchè quei tormenti non toccano a loro; la seconda, perchè
dannati tutti i rei, non potranno i santi più temere malizia alcuna, nè
diabolica, nè umana; la terza, perchè la loro gloria apparirà, per
ragion di contrasto, maggiore; la quarta, perchè ciò che piace a Dio
deve piacere ai giusti.
E certo lo spettacolo era tale, per varietà ed intensità, da appagare
qualsivoglia più difficile gusto. Procuriamo di farcene spettatori
anche noi un istante, almeno con la fantasia, e a tal fine mettiamoci
dietro a qualcuna di quell'anime pellegrine ch'ebbero in sorte di
visitare il regno della morta gente.
ma gli angeli, gli astor celestiali, lo volgono in fuga. Sia qui notato di
passaggio che le pene del purgatorio furono da taluno credute più
aspre che non quelle dell'inferno, e ciò perchè non duravano eterne,
come l'altre duravano.
Le reliquie dei santi che avevano trionfato di tutti gli assalti e di tutte
le insidie di Satana, ajutavano altri infiniti a conseguire consimili
trionfi, e lo stesso dicasi di certi brevi benedetti, da portare appesi al
collo, o cuciti nei panni, e di certi amuleti. Nè mancavano cose
puramente naturali, le quali erano contrarie e nocive ai diavoli; tali
alcune gemme, come il crisolito e l'agata, che li volgevano in fuga, e
il zaffiro, che riconciliava con Dio; tali certe piante, come l'aglio e la
ruta, e un'erba detta dai francesi permanable, che aveva virtù
d'incantare i demonii. Il sale era una delle cose di cui questi si
mostravano più paurosi. Il gallo era, come già s'è notato, un loro
grande avversario, e con la mattutina sua strombettata, foriera del
giorno, li forzava (ma non tutti) a nascondersi. Finalmente, in certi
casi, il cristiano poteva anche usare felicemente, come vedremo,
delle sue braccia e di un buon bastone. Chi poi era caduto in signoria
del nemico poteva, con penitenze più o meno aspre e lunghe,
riscattarsi e mettersi sotto i piedi il tristo padrone.
Tuttavia è da dire che quelle armi e quei ripari non sempre
giovavano, come per chiari esempii si può vedere nelle vite di molti
santi, non pur dei minori e dei mezzani, ma degli eccellentissimi.
Accadde assai volte, qual che ne fosse la cagione, che i diavoli
sfacciati e protervi, ripeterono parola per parola, con ischerno, le
sante orazioni con cui altri s'ingegnava di tenerli in rispetto, e i salmi
stessi del libro sacro; che ghignarono atrocemente alla vista di quella
croce a cui di solito volgevano, fuggendo, le spalle; che trescarono
tripudiando sotto l'aspersorio, e che tanto più gli assalti loro
diventarono rabbiosi e frequenti, quanto maggiori furono le difese.
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